Airbourne: “Black dog barking”. La recensione

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Airbourne - "Black dog barking" - Artwork

Sono passati 3 anni da quando gli Airbourne, formazione hard rock australiana, diede alle stampe il suo ultimo disco, “No guts. no glory“. Ora i quattro ragazzacci di Warrnambool (Victoria State) hanno deciso di riprovarci con questo nuovo disco, “Black dog barking“.

Gli Airbourne sono in attività dal 2003 e, capitanati dal vocalist Joel O’Keeffe (con Ryan O’Keeffe alla batteria, Justin Street al basso e David Roads alla chitarra), hanno deciso di rimettersi in gioco grazie anche al lavoro in fase di produzione di Brian Howes con questo nuovo disco da dieci canzoni racchiuse in 34 minuti scarsi. Questo può già dare un’idea di che tipo di disco ci troviamo davanti.

Gli Airbourne devono molto ai conterranei AC/DC e non ne fanno mistero già dalla introduttiva “Ready To Rock“, (rifacimento di un brano del 2004 della stessa band) che ripropone il clichè così caro alla band, ovvero questo rock duro e puro che ricorda in qualche modo anche i primi Bon Jovi e che si basa su una voce roca e riconoscibile al primo ascolto e su riff di chitarra da amanti del genere, per un ritmo che spinge pesante sull’acceleratore e diminuisce poche volte nel disco.

Dalla prima canzone in poi, lo ammetto, dare un giudizio su questo disco diventa molto semplice. O molto difficile, dipende dal punto di vista. Cerco di spiegarmi meglio. Gli Airbourne hanno perso parte della primigenia genuinità del loro primo disco a vantaggio di una compattezza e di una omogeneità musicale maggiore. Con un genere di questo tipo, però, si corre il rischio di ascoltare una sorta di lunghissima monotraccia di 34 minuti che scorre in sottofondo.

Airbourne - "Black dog barking" - Artwork
Airbourne – “Black dog barking” – Artwork

Rischio che gli Airbourne qualche volta scansano, altre volte no. Una prima pausa al disco la da “No One Fits Me (Better Than You)” rock dal coro accattivante e che prende al primo ascolto. Un secondo stop lo da “Back in the game“, pezzo che si distacca un pochino dallo “stile Airbourne”, vista la melodicità del brano. Un terzo lo da “Cradle to the grave“, canzone lenta e ben cadenzata.

Il disco presenta anche tracce meno felici (come “Firepower“, abbastanza monotona nel suo essere così animata e “Women Like That“, canzone che onestamente non aggiunge molto al tutto) insieme ad episodi più elettrici come “Hungry” e la title track che chiude il disco con il suo rock roccioso che riconduce tutto al punto di partenza.

Chi ascolta questo album per la prima volta e conosce tramite questo lavoro gli Airbourne si troverà piacevolmente colpito da una band così compatta e coerente con il suo genere musicale. Chi invece (come me) ha conosciuto gli Airbourne grazie alle mitiche “Too much, too young, too fast” e la fantastica “Runnin’ wild“… beh, un po’ di delusione l’avrà. Come detto ad inizio di recensione, gli Airbourne nel corso di questi anni hanno rinunciato a parte della loro effervescenza per una maggiore maturità che però non sembra condurre con sé la stessa energia degli esordi. I quattro australiani dal vivo sono una macchina da guerra e non ci metteranno molto a valorizzare anche le canzoni di questo disco, ma senza il sudore e i decibel di un palco live questo lavoro soffre un poco di monotonia e lascia spazio a qualche perplessità.

 

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