Beck: “Morning phase”. La recensione

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Beck - Morning Phase - Artwork

Dopo anni di assenza dalle scene musicali, è tornato il genio californiano della musica Beck, al secolo Beck Hansen, musicista quarantaquattrenne considerato tra i principali esponenti dell’indie rock e del lo-fi in particolare.

A distanza di sei anni dal precedente lavoro “Modern Guilt“, Beck è tornato con un nuovo disco, “Morning Phase“, pubblicato dalla Capitol Records e che segna il ritorno sulle scene del piccolo genio di Los Angeles che nel corso del tempo è riuscito sia a ricevere il plauso della critica sia ad attirare un largo consenso di pubblico mettendo d’accordo con la sua musica generazioni di ascoltatori differenti tra loro.

Beck - Morning Phase - Artwork
Beck – Morning Phase – Artwork

Rispetto ai suoi precedenti album “Modern guilt” ha un approccio molto diverso, più improntato alla musica suonata ed all’indie pop senza avere molte tracce di quella elettronica che hanno reso Beck famoso. Ce ne accorgiamo subito con il primo brano introduttivo, “Cycle“, una parentesi di meno di un minuto che ci accoglie con voce e chitarra nel mondo di Beck. Subito dopo troviamo “Morning” con la voce inconfondibile del musicista americano ed un lento divenire batteria-chitarra che quasi culla l’ascoltatore con i suoi cori quasi onorici.

Finito il secondo brano ci accoglie “Heart is a drum“, canzone che si inserisce nella tradizione più folk che indie pop e che continua nel filone tracciato dalle canzoni precedenti: la linea viene un attimo abbandonata con “Say goodbye“, una canzone in stile country ma in pieno stile Beck dove la voce non è effettata e colpisce in pieno.

Blue moon” è una canzone poco classificabile come genere e come musica ma scorre piacevole come il resto del disco e come “Unforgiven“, altro pezzo lento e d’atmosfera di “Modern guilt”. “Wave” ci accoglie con il suo tappeto di tastiere e di mistero, per un pezzo dal sapore orientaleggiante e che ricorda vagamente lo scorrere del mare e l’infrangersi delle sue onde a riva: gli fa da contraltare “Don’t let it go“, brano inizialmente voce e chitarra che poi si amplia nel suo trascorrere, forse uno dei pezzi migliori del disco.

Dopo “Blackbird chain” arriva la pausa strumentale di un minuto di “Phase” prima di riprendere con le ultime tre canzoni del disco: la chitarra serrata di “Turn away” dal sapore country, quella classica country-folk di “Country down” ed il pianoforte sognante di “Waking light” che chiude degnamente il disco con la sua coda strumentale al limite del progressive anni settanta.

Chi si aspettava un lavoro più elettronico da Beck molto probabilmente rimarrà deluso: l’unica elettronica presente nel disco sono le tastiere che disegnano tappeti sonori onirici ed avvolgenti e che accompagnano alla perfezione le canzoni presenti in questo suo lavoro. Beck, ancora una volta, riesce nell’opera di non risultare già ascoltato ma anzi stupisce per la sua capacità di sapere parlare anche un linguaggio musicale a cui non eravamo abituati. L’unico difetto del disco, se proprio vogliamo trovarne uno, è l’utilizzo a mio avviso troppo invasivo della voce effettata, utilizzo che in alcuni casi poteva essere limitato. Ma è un peccato veniale, dato che parliamo di un ottimo disco che affascinerà gli ascoltatori e che colpirà per alcune sue canzoni (“Wave” e “Say goodbye” in testa). Welcome back, loser.

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