Giubbonsky: “Storie di non lavoro”. La recensione

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Giubbonsky - "Storie di non lavoro" - Artwork

Il lavoro, quello che non c’è, quello che dovrebbe esserci, quello che uccide sia quando c’è che quando non c’è… Ecco il vero protagonista già dal titolo di “Storie di non lavoro“, primo disco solista di Guido Rolando, in arte Giubbonsky.

Un disco di protesta come se ne facevano una volta, quella canzone italiana dolce e amara che ha in cantautori come Paolo Pietrangeli e la Nuova Compagnia di Canto Popolare dei maestri del genere.

Il disco di Giubbonsky comincia piano, con la nenia di “Terra perduta“, canzone che introduce che il disco, e prende subito il volo con l’ironica e azzeccatissima “Non lavoro“, dove si ribalta il concetto di non lavoro dichiarando di non cercarlo ormai più, anzi di essersi persi in una “Città blindata” ormai straniera e inospitale, una Milano che ormai è solo un luogo ameno in cui non ci si riconosce più, con la gente che “qui chi non terrorizza si ammala di terrore“.

Dalla desolazione alla rabbia il passo è breve, come in “Rio Preca“, dove la chitarra incalzante e il fraseggio di sax ben creano l’atmosfera del disagio e dell’attesa. A questo punto, in uno scenario del genere, tanto vale dichiararsi sconfitti e gridare “Forza Mafia“, come se fosse un tormentone da disco per l’estate.

Giubbonsky
Giubbonsky - "Storie di non lavoro" - Artwork

Il filo che lega il disco, il lavoro ma più in generale un ritratto molto a tinte fosche dell’Italia di oggi, è molto forte e si sente anche nelle canzoni successive come “Flatulente“, che richiama nelle sonorità i lavori di un Toquinho improvvisamente triste. La stessa tristezza pervade anche “Gelato in Febbraio“, un ritratto lancinante e angosciante di una Milano dove se ci si chiama Luca Rossi ci può morire per una pallottola vagante all’età di vent’anni, in Piazzale Lugano.

Il disco termina con il rock di “Carpe diem” e con la quasi elettronica di “Senzacqua“, con la parola finale, “Resistenza”, scandita a piena voce, quasi come fosse un mantra del nuovo millennio.

Il disco è un lavoro forte, soprattutto per quanto riguarda i testi, sempre sulla denuncia sociale e che parlano di una Italia messa davvero male, alla fine dei fatti, tra un passato con cui non si riesce a fare pace ed un futuro dipinto a tinte fosche, in mezzo ad un presente in cui lottare ma non si sa bene per cosa. Un disco forte, da pelo sullo stomaco. Un disco come non se ne sentivano da anni.

Voto: Dite la vostra!

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