Skunk Anansie: “Anarchytecture”. La recensione

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Parlare degli Skunk Anansie oggi è come affrontare un Giano bifronte: esiste infatti una profonda differenza tra la prima versione del gruppo che suonava una mistura di heavy metal e musica di protesta rabbiosa, “nera” e femminista, con testi politicizzati e influenze ibride funk, blues, punk rock, reggae e hip hop che ha dato alla luce pezzi come “Charity“, “Weak“, “Twisted” e “Secretly” e la seconda versione del gruppo, quella dopo la reunion del 2009, che ha virato decisamente verso il pop-rock dando alle stampe album più o meno dimenticabili come “Wonderlustre” e “Black Traffic” che hanno avuto poco successo in patria ma moltissimo da noi in Italia.

Dopo questa premessa, parliamo ora dell’ultima fatica della formazione inglese, “Anarchytecture“. Il gruppo è sempre lo stesso e vede Skin (Deborah Dyer) alla voce, Cass (Richard Lewis) al basso e seconda voce, Ace (Martin Kent) alla chitarra e cori e Mark Richardson alla batteria e seconda voce. Non sono cambiati i componenti del gruppo e non è cambiato quasi niente nella vita dei protagonisti, tranne che Skin ha terminato la sua relazione con l’americana Christiana Wyly cui era legata da civil partnership. E questo argomento influenza molto i testi del nuovo album delle “puzzole”, visto che di amore si parla in moltissimi testi del nuovo disco.

“Anarchytecture”: L’ascolto

Partiamo subito dall’inizio: il disco, composto da 11 tracce per poco meno di 38 minuti di musica, si apre con il primo singolo “Love someone else“, un pezzo che si barcamena tra la disco music e il rock e che spinge molto sulla grancassa senza nessuna traccia di cattiveria ma solo con un grande istinto più pop che rock. Subito dopo troviamo il secondo brano, “Victim“, un brano in controtempo dalle atmosfere rarefatte e dal ritornello dominato dai riff di chitarra elettrica che si fa piacevolmente ascoltare.

Il terzo pezzo, “Beauty Is Your Curse“, comincia subito con uno stampo rock potente e uno è lì, pronto a lanciarsi nel pogo sperando in una resurrezione dei vecchi Skunk Anansie, e quasi c’è: morbida, ma c’è una traccia di antico in questo pezzo: l’ascoltatore viene spiazzato dall’accostamento con la canzone seguente, “Death to the Lovers“, il secondo singolo scelto per la promozione del disco, dalle atmosfere lente e che ricordano altri tempi, altri luoghi e altri cantanti (per dirne una “Chasing cars” degli Snow Patrol). Il connubio tra disco e rock torna in auge con “In the Back Room“, seguendo il filone di altri gruppi che ultimamente cercano di accaparrarsi nuove fette di ascolto.

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Skunk Anansie – “Anarchytecture” – Cover

“Anarchytecture” si fa improvvisamente cupo e strano con “Bullets“, pezzo gracchiante e sporco dalle forti connotazione politiche, che strizza l’occhio al lo-fi grazie alla linea basso-batteria e si rivela uno dei pezzi più riusciti di tutto il disco. La sensazione di piacevolezza continua con “That Sinking Feeling“, che inizia con Skin che si schiarisce la voce e continua con un rock sporco, duro e cattivo carico di quell’energia che manca in pratica a tutto il disco tranne che in un caso. Ma ne parleremo dopo.

Without You” è un pezzo rock che cerca un respiro più ampio e sinfonico risultando piacevole all’ascolto ma senza rimanere nelle orecchie e nella testa per moltissimo tempo. Ricordate il pezzo precedente in cui parlavo di energia? Ecco, “Suckers!” in un solo minuto e mezzo ne condensa tantissima, richiamando alla mente i Rage Against The Machine di Morello e facendo scendere una lacrimuccia pensando ai bei tempi andati. La politica torna nel disco con “We Are the Flames“, marcetta rock che riprende la linea tracciata da molti (il primo nome che viene in mente è i Black Veil Brides) per portare acqua al suo mulino. E quando tutto sembra ormai concludersi placidamente il disco sorprende con la delicatissima ballad “I’ll Let You Down“, pezzo sentimentale e romantico che mostra una Skin meno marziana e più umana, un piccolo gioiellino lasciato come conclusione dell’album.

“Anarchytecture” è un disco che mostra passaggi tipici del rock misti a passaggi più melodici, con canzoni che cercano di aggrapparsi ai riff di chitarra e che funzionano a tentoni. Certo, sono passati venti anni dagli esordi e sette dalla reunion, ma la band sembra essere rimasta bloccata in un qualche punto del passato, legata indissolubilmente al suo periodo migliore senza riuscire ad evolvere e crescere, appoggiandosi ad un pop-rock che di certo vende ma che non convince. C’è qualche buon brano (“Suckers!” e “Without you” su tutti) ma nessun pezzo che faccia gridare al miracolo. Qualche giornale inglese ha detto che questo disco sicuramente venderà moltissimo in Italia: dopo averlo ascoltato anche noi ne siamo abbastanza sicuri.

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