Viva Lion!: “Negli USA ho trovato rispetto per la musica”

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Viva Lion!

All’anagrafe è Daniele Cardinale, ma in Italia ed oltre oceano è meglio conosciuto come Viva Lion!, un nome internazionale e carico di forza. Lui è l’esempio di un musicista italiano che, un giorno, ha deciso di trasferirsi al di là dell’Atlantico e tentare la fortuna prima nel Canada e poi negli Stati Uniti, per vivere il sogno americano degli anni duemila. Quel sogno ha cominciato a realizzarsi: incontri importanti con personaggi noti nel mondo della musica, tour per locali e location di rilievo, fino ad arrivare alla House Of Blues di Hollywood. Lo scorso 25 Gennaio 2013 è uscito “The Green Dot EP”, suo lavoro discografico d’esordio che è stato accompagnato dalla pubblicazione del primo singolo estratto “The Thrill”.

Noi di MelodicaMente abbiamo avuto modo di parlare con lui, per cercare di capire quale personalità si nasconda dietro allo pesudonimo Viva Lion! ed i significati profondi che si nascondono dietro questo suo progetto. Ecco che cosa ne è venuto fuori.

Artwork "The Green Dot EP" Viva Lion!
Artwork “The Green Dot EP” Viva Lion!

“The Green Dot” è un concept album che prende ispirazione dalla tua esperienza personale di una relazione a distanza tra te che stavi a Los Angeles e la tua fidanzata in Italia. Tutti brani dell’EP, ad eccezione di uno, sono cantati in duetto (Gipsy Rufina, Megan Pfefferkorn, Roads Collide, Velvet), come mai?

In realtà io ero in Italia e lei a Los Angeles. Uno dei motivi per cui i brani sono in inglese, è perché lei è americana. Le collaborazioni sono state tutte iniziative spontanee, alcuni degli ospiti sono amici da tempo altri lo sono diventati durante le registrazioni. Megan Pfefferkorn invece l’ho conosciuta l’anno scorso in California e abbiamo suonato insieme a Los Angeles.

“The Thrill”, singolo di lancio dell’EP, è l’unico brano che non porta un ospite, rappresenta un periodo difficile del rapporto a distanza. Come mai hai scelto proprio un momento di crisi per presentare questo nuovo lavoro?

Non c’è un vero motivo, ci piaceva il sound e l’andamento della canzone, risultato delle percussioni ottenute battendo i piedi sul parquet dello studio e “suonando” oggetti inusuali come buste e spillette.

Infatti caratteristica importante di “The Green Dot” è che sono state eliminate completamente le batterie: le percussioni sono state sostituite da battiti di mani e piedi, rumori di oggetti che battono tra loro. Da dove è venuta l’idea e quale è il significato che tale sostituzione ha?

Anche qui, è stato un processo naturale. Il senso era mantenere un’atmosfera acustica, intima e corale allo stesso tempo, ma in futuro ci saranno anche batterie vere.

Sei nato come artista indie, poi, dopo esserti trasferito in Canada, sei passato al folk. Come mai questo cambio di genere e di direzione musicale?

Ho sempre ascoltato molta musica di ogni genere e quando mi sono trasferito a Toronto, non avendo più una band, ho iniziato a scrivere “chitarra e voce” e ad ascoltare molte valide folk band locali.

Viva Lion!
Viva Lion!

Nella tua biografia si legge che, in attesa della promozione dell’album, ti sei dedicato ai concerti, non solo nei locali, ma anche nelle case. Come mai questa scelta così inusuale?

Non sono il primo che suona nelle case, negli Stati Uniti è una formula già collaudata. Le mie canzoni si prestano particolarmente a contesti intimi e familiari ed è effettivamente una dimensione che mi piace particolarmente.

Sei andato via dall’Italia molto presto, la tua carriera è cominciata all’estero, hai ottenuto riscontri forti e molte soddisfazioni. Sulla base della tua esperienza, come giudichi l’attuale panorama della musica italiana? Come ne esce in paragone a quello oltre oceano?

Prima di partire per Toronto ho suonato per molti anni in una band rock e anche se non abbiamo girato molto avevamo guadagnato il rispetto di tutti. Negli Stati Uniti ho suonato per la prima volta l’anno scorso e le reazioni sono state sempre positive, ma la strada è ancora molto lunga!
In Italia c’è molta buona musica, a volte pecchiamo di provincialismo ma ci sono molte band che suonano regolarmente all’estero. Il paragone andrebbe fatto caso per caso. In generale posso dire che in Nord America ho riscontrato più rispetto e attenzione per la musica e i musicisti.

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