Volbeat: “Outlaw gentlemen and shady ladies”. La recensione

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Volbeat - "Outlaw gentlemen and shady ladies" - Artwork

I Volbeat, formazione danese che fonde sonorità heavy metal con uno stile di canto rockabilly e che si è fatta conoscere anche in Italia come gruppo spalla dell’ultimo tour dei Nightwish, ha dato alle stampe un nuovo disco, “Outlaw gentlemen and shady ladies”.

Il gruppo della Danimarca, nato nel 2001 dallo scioglimento dei Dominus, ha, nel corso degli anni, vinto vari premi europei grazie a successi come “Radio days”, “Maybellene I Hofteholder”, “I only wanna be with you” e soprattutto “Sad man’s tongue“, tributo a “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash, figura a cui i Volbeat si ispirano molto, insieme a Elvis Presley.

La formazione, nota anche grazie alla voce del frontman Michael Poulsen, ha pubblicato il suo quinto disco grazie anche alla produzione di Rob Caggiano, ex chitarrista degli Anthrax che è presente anche nel disco come chitarrista. “Outlaw gentlemen and shady ladies” si presenta come un lavoro da 14 tracce per 58 minuti scarsi di musica e dà subito un’idea di cosa ci aspetta con la strumentale iniziale “Let’s shake some dust”, dalle chitarre cupe e dalla ritmica pesante, quasi western.

Segue “Pearl Hart“, canzone in pieno stile Volbeat e che fa capire a chi non conosce questo gruppo come i danesi intendono la musica: ritmiche serrate, voce profonda, chitarra cattiva e decisa e atmosfera che mescola atmosfere alla Sin City ed il western più duro e di frontiera. “The Nameless One” (omaggio a H.P. Lovecraft?) e “Dead but rising” ci mostrano due facce diverse dei Volbeat: da un lato abbiamo ritornelli molto melodici e a presa rapida, dall’altro abbiamo melodie cattive e batterie pestone che ricordano molto i Metallica.

Volbeat - "Outlaw gentlemen and shady ladies" - Artwork
Volbeat – “Outlaw gentlemen and shady ladies” – Artwork

Un assolo di chitarra introduce “Cape of our hero“, pezzo dal sapore più pop e melodico che ci mostra come anche i Volbeat abbiano un cuore dietro alle chitarre ed alla pelle nera… ma è una sensazione che dura poco, viste le urla e le chitarre metal di “Room 24“, che si estranea un poco dalla linea musicale del gruppo di Poulsen e che sfocia nel metal più puro. Nel disco troviamo anche una cover, “My body” degli Young the Giant rifatta alla maniera dei Volbeat, un pezzo trascinante che non perde un grammo della sua energia originaria.

Il disco prosegue con altre canzoni che mostrano appieno il potenziale dei Volbeat come “The hangman’s body count” e “The sinner in you” (pezzi molto di atmosfera), “Doc Holliday” e “Black Bart” (brani che dimostrano come l’ingresso di Rob Caggiano abbia dato qualcosa in più al gruppo, soprattutto per quanto riguarda gli assoli, molto più presenti, e per la cattiveria in puro stile metal che alcuni brani mostrano), senza però dimenticare le venature rockabilly e country ed in “Lonesome rider” ce le ricordano efficacemente, grazie anche all’apporto femminile di Sarah Blackwood. Il disco si chiude con la triste metal ballad “Our loved ones” che chiude degnamente il disco.

Molti avevano paura, dopo “Guitar gangsters & Cadillac blood” che il gruppo danese avesse preso una china discendente rispetto agli esordi così promettenti. Gli ultimi due album, a mio parere, mostrano nettamente il contrario, soprattutto quest’ultimo, anche grazie all’ingresso in formazione di Rob Caggiano: i Volbeat sono vivi e godono di ottima salute, come mostrano canzoni come “Lonesome rider”, “The hangman’s body count” e “Lola Montez”, che ricorda in qualche modo il loro successo “Maybellene I Hofteholder”.  La scelta della cover poi è azzeccatissima, un pezzo pieno di energia che i Volbeat non sminuiscono ma interpretano alla loro maniera, cioè alla grande. Nel complesso un disco mai monotono e con alcune sfaccettature molto interessanti, dove la voce di Poulsen ruggisce più del solito e dà una direzione ben precisa ai suoi Volbeat. Un gran bel disco.

 

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