Ariana Grande: “Dangerous woman”. La recensione

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Ormai è impossibile non conoscere Ariana Grande (al secolo Ariana Grande-Butera), l’attrice, cantante e compositrice statunitense che ha preso nel posto dei cuori americani lo spazio lasciato vuoto prima da Whitney Houston e dopo da Mariah Carey. La piccola americana (che tanto piccola a livello vocale non è, visto che la sua voce ha un registro soprano lirico-leggero e copre quattro ottave e due semitoni) ha proprio soppiantato la burrosa diva americana e ne ha preso il posto nello starlet musicale a stelle e strisce. E il suo nuovo disco “Dangerous woman” ne è la prova.

Dopo il successo commerciale del suo secondo album in studio “My Everything” del 2014 che ha venduto oltre 4.5 milioni di copie in tutto il mondo, diventando il più grande successo della cantante (grazie soprattutto a singoli come “Bang Bang” e “One Last Time“), la cantante americana ci riprova con questo nuovo disco, forte del suo appeal commerciale e del suo timbro molto melodico e della sua musica, un pop e R&B contemporaneo che strizza l’occhio al funk e all’hip-hop.

“Dangerous woman” è un disco composto da undici tracce per 39 minuti di musica, prodotto per la Republic da una pletora di musicisti e produttori (citiamo tra i tanti Max Martin, Ilya Salmanzadeh e Johan Carlsson) e si apre con il pop dolce e quasi infantile di “Moonlight” che fa subito capire la fetta di pubblico a cui punta la Grande senza tanti giri di parole e di gorgheggi: subito dopo con la title-track (scelta come singolo di lancio del disco) c’è il tempo anche di puntare alla nuova fetta di pubblico che ama un pop contaminato e minimale ma carico di voci potenti e senza paura di osare.

Be alright” mette un attimo la parte la potenza della voce di Ariana per sfruttarne la melodiosità e la musicalità e confezionare così un brano dalle influenze disco che oggi fa tanto mainstream e lo stesso fa “Into you“, il secondo singolo scelto per la promozione del disco e che ha esordito col botto in moltissime classifiche mondiali. Subito dopo troviamo la prima collaborazione, “Side to side“, che vede l’immancabile Nicki Minaj fare la sua comparsata in un disco americano e piega un pochino la voce di Ariana alle esigenze di mercato, snaturandola in parte.

Di featuring in questo disco ce ne sono quattro e il secondo è con Lil Wayne nel brano “Let me love you“, un pezzo dalle atmosfere sospese con il “solito” inserto hip-hop che però non è disprezzabile: in un amen passiamo dal quasi gospel al funky di “Greedy” per un brano che farà successo nelle radio e nei concerti, ne siamo abbastanza certi.  “Leave me lonely” è forse il brano migliore del disco, dalle atmosfere anni Cinquanta e dal forte gusto retrò, quasi alla torch song.

Proseguendo verso la fine del disco non troviamo eccessive sorprese, con “Everyday” (con la presenza del rapper Future) e “Sometimes” che si inseriscono nel filone generale elettropop del disco ma, come dicono i latini, “in cauda venenum” e proprio alla fine troviamo il gioiellino del disco, questa “I don’t care” uscita dritta dritta dagli anni Cinquanta dove la voce della Grande può esprimersi al massimo del suo potenziale.

Dangerous Woman” ha ricevuto critiche generalmente positive dagli addetti ai lavori e non fatichiamo a capire perché: Ariana Grande riesce ad accontentare più palati musicali con un solo disco mostrando un range impressionante di possibilità in cui la sua voce si destreggia in maniera a dir poco perfetta. All’inizio della recensione abbiamo parlato di Mariah Carey: è proprio quello lo spazio e l’ambito in cui la Grande si è insediata riempiendo un vuoto musicale che si era creato in America (basta guardare le sue tantissime collaborazioni con artisti come Big Sean, The Weeknd, Jessie J, Nicki Minaj, Mika e Andrea Bocelli). Questo disco riesce ad accontentare un vastissimo pubblico con un minimo sforzo, mescolando stilemi e generi con una semplicità assurda, il tutto abilmente giostrato dai produttori che hanno dovuto “solo” gestire la voce di Ariana. Peccato che però questo disco, proprio da questo punto, pecchi: troppi generi messi insieme, troppa mescolanza, troppe canzoni “catchy” fatte per accontentare più fasce di pubblico rendono il disco un mash-up di generi dove ciò che conta è solo la potenza locale e la bravura della Grande, perdendo parte del suo appeal nel processo. Peccato.

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