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Depeche Mode: “Delta Machine”. La recensione

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Depeche Mode - "Delta Machine" - Artwork

Per parlare di questo disco dobbiamo prima fare un piccolo passo indietro. Durante le conferenze stampa che si sono susseguite nei mesi scorsi, i Depeche Mode avevano parlato di questo nuovo lavoro come del figlio di “Violator” e “Songs of faith and devotion“, due capisaldi della band nei lontani anni ’90. Ed il singolo presentato nella promozione dell’album, “Angel“, aveva fatto ben sperare per il suo blues sporco ed elettronico.

Poi era stato il tempo di “Heaven”, il singolo scelto come presentazione del disco, e gli ascoltatori erano rimasti spiazzati da un brano così lento e melodico, anche se piacevolmente colpiti.

Ascoltando questo disco (messo a disposizione dalla band a sorpresa su iTunes prima della data di release ufficiale) bisogna scindere due sensazioni: un po’ di delusione e tanta gioia. Due esatti opposti. Delusione perché il disco ha pochissimo di quello preannunciato dalla band stessa e dal primo singolo, “Angel”. Gioia perché è comunque un gran bel disco, che segue il filone tracciato da “Sounds of the Universe” e che prosegue un certo percorso musicale fatto di musica elettronica minima ma intelligente da una band che ha al suo interno una delle voci più particolari della scena musicale internazionale, Dave Gahan, e due musicisti con i fiocchi come Martin Gore e Andrew “Clapman” Fletcher.

Parlando di gioia, l’inizio dell’album è di quelli che lasciano spiazzati: “Welcome to my world” sembra uscita pari pari da SOTU e ti fermi a ricontrollare se hai preso il CD giusto. Per fortuna già dalla seconda traccia, “Angel“, la musica cambia e si entra in un mondo fatto di blues elettronico e sporco e di voci dannate che urlano la loro voglia di redenzione. Ed è giusto che, dopo un pezzo come questo, ci voglia una canzone più calma, che riporti la calma, una invocazione dolce e sofferta come “Heaven“. Ma è solo un istante, il blues rock elettronico riparte con “Secret to the end“, un brano dal ritornello ossessivo che ai concerti di certo renderà tantissimo.

Depeche Mode-"Delta Machine" - Artwork
Depeche Mode-“Delta Machine” – Artwork

Con il quinto brano, “My little universe“, “Delta Machine” comincia a cambiare: con questo pezzo torniamo sui solchi dei lavori precedenti e sulla linea musicale già tracciata da SOTU, ovvero musica al minimo, molti effetti sonori, una voce quasi narrante e i cori a sottolineare il cantato. Si ritorna un attimo al filone principale del disco con “Slow“, una canzone che ha una bellissima melodia.

Le due canzoni successive, “Broken” e “The child inside” mostrano i due lati dei Depeche Mode attraverso le voci di Dave Gahan e Martin Gore: il primo è un brano ben ritmato e dal sound accattivante, mentre il secondo è un pezzo dolcissimo e molto d’atmosfera, una delle canzoni migliori del disco. Dopo il movimento di “Soft touch /raw nerve”  arrivano le melodie particolari e orientaleggianti di “Should be higher“, atmosfere che si ripetono anche nel brano successivo “Alone“, dal ritmo molto serrato e che vedremmo bene come colonna sonora di qualche telefilm. Il ritmo prosegue con “Soothe my soul“, canzone che credo sarà uno spettacolo dal vivo con la verve istrionica di Gahan così vicina alla rockstar e che è stata scelta come secondo singolo.

Il disco si chiude con “Goodbye“, un pezzo praticamente blues che riporta al discorso precedente e che sembra il seguito di “The sweetest condition“, che era a suo modo il reprise di “The sweetest perfection“, pezzo cardine di Violator. Forse un ritorno all’antico attraverso il nuovo. O solo una dimostrazione che, passano gli anni, ma i Depeche Mode sono sempre gli stessi. Sempre un grandissimo gruppo capace di sfornare bellissimi dischi con il tempo che meritano.

Come detto anche prima, dai prodromi che erano stati fatti, mi aspettavo qualcosa di diverso dal risultato finale: “Delta Machine” risente ancora molto dello straordinario lavoro di “Sounds of the Universe” sull’architettura stessa delle canzoni dei Depeche Mode e sul loro modo di fare musica, ma la band è andata anche stavolta oltre e lo dimostrano brani come “Angel”, con il suo blues sporco, e “Should be higher”, dagli inserti arabeggianti. Poco importa se alla fine non è tutto come ci si aspettava. Tra le mani posso affermare con certezza di avere un signor disco. Che il Dio della musica benedica i Depeche Mode.

 

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