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Hurts: “Exile”. La recensione

La musica pop è generalmente destinata ad un pubblico d’ascolti quanto più ampio possibile, e allora perché negli ultimi 10 anni musicisti dall’inconfondibile impronta pop continuano a voler proporre esasperatamente la loro musica come alternativa? Gli Hurts tornano con il secondo tentativo di voler apparire come internazionali e come alternativi, ma probabilmente ci riescono solo per metà disco, lasciando in genere le ultime tracce un’opera alternativa incompiuta. Il total white del primo album viene rimpiazzato da un total black dell’artwork seconda, solo perché la tristezza e l’ambientazione tragica non avevano raggiunto la massima diffusione nelle precedenti melodie. Probabilmente questi giudizi sono abbastanza complessivi, o almeno sono i giudizi di chi all’intero ascolto si aspettava di chiudere in maniera più dignitosa un disco che sembrava partire bene. “Exile” inaugura la tracklist piuttosto lunga, e lo fa con grande dignità, con il suono elettronico che forse ci aspettavamo dopo aver ammirato la copertina, con la giusta sporcizia dei suoni ma tendente leggermente al Bellamyismo (vedi leader dei Muse). “Miracle” sembra un brano estratto dal disco fratellastro di “Mylo Xyloto”, sarà forse necessario questo “looking for a miracle“? “Sandman” comincia a suggerirci che forse c’è qualcosa che non va nel disco, si presenta quasi come un brano pop travestito da Missy Elliot in duetto con Rihanna (possibile?), il che, per chi cerca di sfiorare l’alternatività elettronica è abbastanza fuori dalle righe.  “The Road” sembra riportare il lume della ragione, trasportandoci al mood made in Gahan, dal quale il duo elettronico si sente fortemente (e palesemente) ispirato. “Cupid” è la digressione di “A Pain That I’m Used To“, difficile da comprendere se destinato come complimento alla band o come allusione ad altro, ad ogni modo se avessero soltanto palesato quest’amore incondizionato per l’elettro rock anni ’80 per l’intero ascolto dell’album probabilmente avrebbero riscosso più successo.

Considerando i circuiti di diffusione della band, probabilmente c’è qualcosa che non quadra o quantomeno c’è qualche tassello che necessita di rientrare nella sua casellina, previa confusione di un album potenzialmente di qualità con un prodotto discografico destinato a fallire. Il carattere scuro e quasi raffinato di “Exile” sembra fermarsi a “The Crown“, che probabilmente aiutato dal mood tristissimo risulta quasi essere il picco di questo album. Per chi ricorda con affetto il successo e l’indubbio merito di “Wonderful Life“, probabilmente resterà abbastanza basito da quello che succede nella seconda parte dell’album, che per il momento oseremmo definire una parentesi pop in un mare di sperimentazioni riuscite male. Occuparsi di

Hurts - Exile
Hurts – Exile – Artwork

musica leggera non è necessariamente negativo, o quanto meno dovremmo sradicare dalla cultura musicale l’accezione negativa del termine pop, e tutti i pregiudizi che risiedono in esso. I linguaggi e le melodie semplici risultano essere sempre le più immediate e più apprezzate, nonostante le sperimentazioni in musica siano il fuoco vivo di tutta la discografia internazionale. Sembravano partiti abbastanza bene gli Hurts, ma probabilmente dovrebbero per un attimo abbandonare lo schema rigido al quale si stanno attenendo per risultare in maniera esasperata (fallimentare) degli outsider della musica contemporanea. Va bene restare sulla linea misteriosa e sull’ambiguità, ma lungi dai luoghi comuni e dalle fotocopie. Finché il paragone all’ascolto sarà vivo, probabilmente sarà solo convinzione fittizia quella che spinge a sperimentare in maniera già vista e rivista donandoci più immagine e suggestione che musica. Contrariamente a tutto ciò che è stato detto, questo suona come una ramanzina pedagogica, perché metà disco è apprezzabile e ci lascia aperto il varco speranzoso di produzioni musicali sicuramente migliori da parte degli Hurts, il resto non è commentabile, o meglio preferiamo non farlo.

 

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