Motorpsycho: “Here be monsters”. La recensione

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Dopo quasi tre decadi di cambi di stile e di sperimentazione che li hanno portati a pubblicare complessivamente quasi due dozzine di dischi, ognuno dei quali differente dal precedente, la band scandinava di eclectic prog dei Motorpsycho ha portato a termine una sua nuova ennesima fatica discografica, “Here be monsters“, pubblicato per l’etichetta Rune Grammofon.

La band di Trondheim composta da Bent Sæther, Hans Magnus “Snah” Ryan e Kenneth Kapstad (con Thomas Henriksen qui in veste di tastierista e co-produttore), che da poco ha visto la nascita in Norvegia di un museo a loro dedicato, ha preso il materiale per questo nuovo disco da due esibizioni che ha tenuto in patria con l’aiuto del tastierista Ståle Storløkken, una in una chiesa insieme ad un coro e ad un organo e un’altra al Teknisk Museum per il centenario della sua fondazione. Storløkken non ha potuto dare una mano alla stesura del disco per impegni personali e così i nostri tre sono rimasti da soli a finire la loro fatica.

La base live però non deve influenzare sull’ascolto del disco: “Here be monsters” ha una struttura molto agile e snella, non avendo alcuni degli elementi intricati o duri che hanno caratterizzato gli ultimi lavori dei Motorpsycho. Invece il gruppo scandinavo ha decisamente virato verso gli anni Sessanta, mescolando il progressive rock alle atmosfere alla H.P. Lovecraft (il disco è un concept album sullo stress psicologico). Anche la scarsità delle tracce (solo sette) non deve trarre in inganno, visto che comunque l’album raggiunge tranquillamente i 46 minuti di lunghezza.

Dopo l’iniziale strumentale “Sleepwalking“, molto delicato e leggero, siamo subito introdotti alla natura del disco dal primo brano vero e proprio, “Lacuna/Sunrise“: qui aleggia un’atmosfera da jam dei Pink Floyd, con la voce di Bent che si sovrappone a quella di Snah e crea un’atmosfera molto piacevole e amichevole, un vero marchio di fabbrica dei Motorpsycho, con il suono che lentamente cresce e si espande fino all’epilogo finale che si riallaccia al tema iniziale. Subito dopo troviamo un nuovo pezzo strumentale, “Running With Scissors”, che si sposta di una decina d’anni in avanti, verso la psichedelia californiana degli anni ’70, più ribelle e acida, con influenze alla Mogwai e alla Jethro Tull (notare il suono di flauto in sottofondo in alcuni punti).

Motorpsycho - "Here be monsters" - Cover
Motorpsycho – “Here be monsters” – Cover

Un loop di pianoforte annuncia “I.M.S.“, brano all’apparenza calmo che lascia poi il tempo alla batteria e al basso di farsi strada per culminare con il cantato di Sæther: questo pezzo spinge molto sull’acceleratore ed è il brano più ritmato del disco, soprattutto nella seconda parte, dove affiorano tracce di genoma hendrixiano misto ad una punta (ma solo una punta) di shoegaze. “Spin, Spin, Spin” invece è una rielaborazione di un brano folk scritto da Terry Callier e reinterpretato da un gruppo americano psychedelic rock di fine anni ’60, gli H.P. Lovecraft, e i Motorpsycho non ne hanno toccato la natura, quasi con venerazione, mantenendone inalterata la struttura e il calore.

Dopo un reprise della prima traccia strumentale “Sleepwalking again“, il disco si chiude con “Big Black Dog”, una suite da ben 18 minuti. E qui la chiusura è a dir poco epica, confrontata al resto del disco: la canzone parte con una chitarra acustica molto docile e con una linea melodica vocale a due per poi scendere lentamente in un viaggio paranoico guidati dal solo sintetizzatore. Il caos musicale riesce a generare (anzi a rigenerare) la linea melodica principale, nera e profonda come la notte artica, con alcuni momenti di pace e profondità che l’organo è in grado di regalare, fino alla chiusura chitarristica ipnotica.

I Motorpsycho erano già saliti di livello dai tempi di “Heavy Metal Fruit”, e dimostrano che sono ancora in un periodo di profonda e prolifica vena creatica: con “Here be Monsters” la band ha nuovamente sterzato verso un nuovo percorso musicale, tornando indietro ai tempi della psichedelia, senza sacrificare però la voglia di sperimentare o la capacità di suonare su terreni già familiari. Saranno solo sette canzoni, ma è un gran bel disco che dimostra il momento d’oro della band. Viene da chiedersi quale sia la nuova tappa del loro lungo percorso.

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