Queens Of The Stone Age: “…Like Clockwork”. La recensione

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1973

Sei anni sono tanti, possono servire a fare tanto o addirittura a non fare nulla. Ai Queens Of The Stone Age sei anni sono serviti per reclutare un po’ di vecchie conoscenze e di metterle insieme per registrare il successore di “Era Vulgaris”. Attesissimo album, “…Like Clockwork” sembra non smentire l’impronta stoner, nonostante risulti ammorbidito, addolcito e addirittura più moderno in alcuni tratti. Chiunque abbia avuto un debole per la durezza e la sporcizia con la quale si sono affermati i Queens Of The Stone Age probabilmente ne rimarrà un po’ deluso, ma d’altronde il 1998 è così lontano! L’identità e il carattere non devono mai andare persi, ma cosa succede se i continui cambiamenti di formazione, abbinati a numerosi progetti paralleli mirano alla distruzione di un equilibrio che più terrificante e rock non si può?

Un album logico, continuo, fluido e interessante “…Like Clockwork”, un album che sin dal primo ascolto cattura, e se gli elementi accattivanti una volta erano i pesanti riff caratteristici che hanno fatto guadagnare alla formazione californiana la collocazione nel genere robot rock, in quest’ultima fatica gli elementi interessanti e accattivanti sembrano essere la morbidezza di una vocalità come quella di Homme e la percezione del blues presente quasi in tutte le tracce.

I sei anni di pausa dalle scene sono serviti a partorire un album curato nei minimi dettagli, e pronto a far parlare di sé, come d’altronde i Queens Of The Stone Age sono sempre abituati a fare sin dai primi tempi sia nel bene che nel male. Abbandonati i dissapori con le pecore tornate all’ovile, la presenza di Nick Oliveri in fondo ci suggerisce che la cattiveria musicale caratteristica di uno stoner firmato Queens Of The Stone Age, non è andata totalmente perduta, e che i bassi marcati e inquietanti non saranno mai messi da parte in una nuova produzione discografica.

Queens Of The Stone Age - Like Clockwork - Artwork
Queens Of The Stone Age – Like Clockwork – Artwork

Una rottura di vetri rompe il silenzio, e la “Keep Your Eyes Peeled” già a noi conosciuta, ci accompagna in un luogo cupo e silenzioso, per interrompersi con un’improvvisa batteria e un terrificante basso. Il pezzo prosegue tra calme apparenti e improvvisazioni nervose, con un tema costantemente triste ma tanto cattivo tenuto vivo dal lento canto di Homme. “I Sat By The Ocean” colloca il nostro ascolto su di un livello più immediato, quasi nel più classico dei temi rock, con un’immediatezza atipica rispetto al resto della produzione dei Queens Of The Stone Age. L’intimo e introspettivo momento di “The Vampyre Of Time And Memory” viene scandito dai tasti bianchi e neri e una buona dose nascosta di blues, la quale ci porta immediatamente nell’atmosfera scura, cupa e cattiva di “If I Had a Tail”, resa intrigante e affascinante dalla vocalità inconfondibile del frontman. Riff violentissimi arrivano puntuali a farci ricordare che in fondo questo è un album dei Queens Of The Stone Age, e che se ci pareva di percepire una nota di immediatezza, probabilmente era solo per farci illudere.
“My God Is The Sun” è una ricca proposta di una tipicità stoner inconfondibile, e probabilmente rappresenta il momento più energico di questa nuova produzione discografica, alla quale hanno preso parte nomi davvero esclusivi appartenenti a tutta la scena musicale mondiale. La lenta e sognante “Kalopsia” porta l’inconfondibile firma di Trent Reznor e l’eccezionale scrittura di Alex Turner degli Arctic Monkeys, il che spiega la surreale calma melodica arrivata dopo la tempesta. Una sognante atmosfera non può durare più di un minuto e mezzo in un album come questo, e nonostante l’apprezzabile tentativo di rimanere tranquilli almeno per una traccia, arrivano come da copione chitarre batterie e bassi nella loro massima espansione a farsi giustizia.

“Fairweather Friends” rappresenta la corale collaborazione di un Dave Grohl alla batteria, Mark Lanegan, Trent Reznor, Elton John al piano, Alex Turner e Brody Dalle, per dirigerci verso una degna chiusura di album. Se per un attimo avevamo pensato di trovarci in un ambiente musicale differente, brani come “Smooth Sailing” e “I Appear Missing” tra uno stoner cattivo al punto giusto e un blues sensuale misto a sfoghi tremendamente cupi e assoli che più giusti non si può, arrivano a smentirci e a farci godere quella sana sporcizia made in Queens Of The Stone Age. Tra Desert Sessions e progetti paralleli costruiti qua e là Josh Homme ha il tempo di dedicare un’ultima traccia a quello che viene chiamato l’album del ritorno, e omonimo dello stesso disco, l’ultima traccia è quasi una drammatica ballata, che verso la fine sfocia in quella durezza addolcita inconfondibile della band, con una strizzata d’occhio al blues che sembra aver colonizzato l’intero album e alla drammaticità degli ambienti in cui eravamo stati trasportati sin dall’inizio.

Un lavoro apprezzabile che i fedelissimi probabilmente non collocherebbero tra i migliori album della band, ma che alla fine dei conti risulta essere un giusto compromesso tra il rock che non muore mai e l’avanzare degli anni, i quali inesorabilmente segnano anche il più duro degli animi. Indovinate un po’ dove era stato collocato Jake Shears, probabilmente non crederete alle vostre orecchie ma il duro esordio della prima traccia nascondeva proprio l’outsider di questa riunione di vecchi amici.

2 COMMENTS

  1. mi sembra che usi un po’ troppo il termine stoner. ma almeno lo sai cos’è? forse sarà un bel dischino, ma certo è che non è un disco stoner.

  2. Zillo ma almeno lo hai letto il post?
    No perché non mi pare di aver letto da nessuna parte che il disco sia stoner. Piuttosto si fa riferimento a quelli precedenti e a qualche passaggio “alla vecchia maniera”

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