
WhatsApp, attenti al Fisco (www.melodicamente.com)
L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza ampliano gli strumenti a disposizione per i controlli fiscali.
L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza ampliano gli strumenti a disposizione per i controlli fiscali, includendo l’analisi di dati ricavati da social network e applicazioni di messaggistica come WhatsApp. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha infatti sancito la legittimità dell’utilizzo di contenuti digitali come prove documentali nell’ambito di accertamenti tributari, segnando un’importante evoluzione nel contrasto all’evasione fiscale.
Il ruolo dei social network e delle chat nelle indagini fiscali
Negli ultimi anni, la presenza virtuale dei contribuenti è diventata un elemento chiave per l’accertamento della loro reale situazione economica e patrimoniale. La pubblicazione di foto, video e post sui vari social network, come Facebook e Instagram, può essere utilizzata per ricostruire lo stile di vita e verificare la coerenza con le dichiarazioni fiscali.
Secondo la circolare n. 1 del 2018 emessa dalla Guardia di Finanza, durante le ispezioni e i controlli fiscali è possibile effettuare verifiche sui dispositivi elettronici del contribuente, come smartphone e computer. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8259 del 2025, ha confermato la legittimità di tali controlli, riconoscendo come pienamente utilizzabili in tribunale i documenti digitali ottenuti in questo modo.

Nel caso specifico esaminato dalla Suprema Corte, marito e moglie avevano simulato una separazione personale e successivamente un divorzio, continuando però a convivere come se nulla fosse. Tra le prove raccolte, sono emersi post e fotografie pubblicati sui social che documentavano la reale convivenza e la situazione patrimoniale, elementi che hanno contribuito alla condanna per frode fiscale. La sentenza ha quindi sottolineato come i contenuti digitali costituiscano “riproduzioni informatiche” ai sensi dell’articolo 2712 del codice civile, rivestendo pieno valore probatorio a meno che non venga specificamente contestata la loro autenticità.
Non solo i social network, ma anche le conversazioni registrate nelle app di messaggistica istantanea, come WhatsApp, possono essere utilizzate come prove in ambito fiscale. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8376 del 28 febbraio 2025, ha stabilito che le chat possono avere valore probatorio anche senza che sia stato eseguito un controllo diretto sul dispositivo, purché vengano acquisite nel rispetto delle norme che tutelano la privacy e i diritti dell’indagato.
Le autorità fiscali quindi, tramite la Guardia di Finanza, possono analizzare messaggi e scambi di comunicazioni per individuare comportamenti sospetti di evasione o frode. Tuttavia, per poter procedere al sequestro di uno smartphone o di altri dispositivi digitali, sono necessarie condizioni rigorose:
– devono sussistere fondati indizi di reato, che dimostrino la presenza di prove rilevanti per l’indagine fiscale;
– il sequestro deve essere autorizzato da un magistrato, che valuta la legittimità e la proporzionalità della misura;
– deve riguardare reati fiscali di una certa gravità, come frodi, fatture false o occultamento di redditi.
Non è quindi possibile disporre il sequestro in modo automatico o sulla base di sospetti generici, ma solo laddove vi sia una concreta necessità investigativa.