
Lo psicologo spiega perché ami così tanto cucinare - melodicamente.com
Cucinare senza appetito è un comportamento comune legato a emozioni, memoria, bisogno di controllo e cura. Ecco cosa lo spiega davvero.
Cucinare non è soltanto un gesto necessario. È spesso una risposta profonda a stati emotivi complessi, una forma di comunicazione e, in certi momenti, una vera ancora psicologica. Capita a molti di mettersi ai fornelli anche senza fame, attratti dal solo profumo di un sugo o dalla voglia di impastare qualcosa. Dietro questa abitudine, c’è molto di più che la semplice voglia di mangiare. La cucina diventa uno spazio in cui si mescolano desideri, ricordi, ansie e ricerca di equilibrio. E cucinare, in sé, può valere quanto il piatto finito.
La fame edonica e la forza degli stimoli sensoriali
Quando si parla di fame, la distinzione tra fame fisiologica e fame edonica è essenziale. La prima nasce da un bisogno reale del corpo. La seconda, invece, è stimolata da ciò che vediamo, sentiamo, ricordiamo. Basta scorrere un feed social con una foto ben scattata di una torta o sentire il profumo di pane appena sfornato per attivare aree del cervello legate al piacere. Il desiderio si accende anche senza un vero stimolo fisico.
È il principio alla base della Power of Food Scale, uno strumento che misura quanto siamo sensibili agli stimoli legati al cibo. Chi ottiene punteggi alti tende a reagire con maggiore intensità e frequenza, traducendo stimoli visivi o olfattivi in azioni concrete come cucinare. In questo senso, il cibo diventa esperienza anticipata: prepararlo, già di per sé, regala appagamento.

E quando cucinare diventa un rito, è anche un modo per rassicurarsi. Impastare, mescolare, tagliare: gesti semplici, ripetuti, che aiutano a rientrare in sé e regolare le emozioni. Per alcuni è quasi una meditazione attiva, un momento che isola dal rumore del mondo.
Controllo, identità e legami: cucinare come atto personale
In tempi di incertezza, il cucinare offre un potere concreto: prendere ingredienti diversi e trasformarli in qualcosa di nuovo. È un atto creativo, ma anche decisivo. In un contesto dove molte cose sfuggono al controllo, poter scegliere cosa preparare e come farlo restituisce una forma di autonomia.
Ogni gesto in cucina può diventare un modo per afferrare la realtà con le mani. Anche quando il frigo è quasi vuoto, improvvisare un piatto significa non arrendersi al disordine. È una piccola resistenza, un modo per dare forma e struttura a una giornata confusa.
C’è poi un legame profondo con l’identità: cucinare certe ricette riporta alle radici familiari, ricorda persone, luoghi, gesti imparati. Per molti, rifare il sugo come lo faceva la nonna o cucinare il dolce tipico delle feste diventa una connessione con il passato, un modo per mantenere vive storie e legami che altrimenti sbiadirebbero.
Cucinare è anche cura per gli altri. Preparare qualcosa per chi si ama è un gesto diretto, visibile, concreto. Un piatto fatto a mano comunica attenzione, tempo donato, presenza. Anche se non si ha fame, farlo per qualcun altro rafforza i legami, diventa mezzo di scambio e relazione.
Non è raro che cucinare diventi atto simbolico: un modo per dire “ci sono”, per chiedere scusa, per festeggiare o semplicemente per esserci. In quei momenti, il cibo smette di essere solo nutrimento. Diventa linguaggio. E ogni cucchiaiata racconta una storia.