Il Cile: “Siamo morti a vent’anni”. La recensione

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Il Cile - "Siamo morti a vent'anni" - Artwork

Lorenzo Cilembrini (in arte Il Cile) è un artista alla vecchia maniera, uno di quelli che ha preso tante porte in faccia e che ha sudato prima di arrivare al fatidico primo disco. Ma proprio il sudore e la fatica danno a questo esordio il sapore del piccolo capolavoro.

Siamo morti a vent’anni“, disco prodotto da Fabrizio Barbacci (già al lavoro, tra gli altri, con Negrita e Ligabue) e arrangiato da Guglielmo Gagliano, chitarrista di Paolo Benvegnù, ha il prego di essere piccolo e compatto, nove canzoni dense di significato e di valore, nove canzoni in cui un artista si racconta e raccontandosi racconta anche la sua generazione.

Il disco, che prevede un fittissimo booklet ben lavorato con tutti i testi delle canzoni (cosa non sempre presente di questi tempi) ci accoglie con la title track, “Siamo morti a vent’anni“, un ritratto generazionale di una generazione che vive “coi troppi Negroni barcollando in centro“, una generazione che ha affidato speranze e sogni e che non li ha visto tornare indietro. Dopo il ritratto generazionale si passa alla straziante “Cemento armato“, il ritratto di un amore finito male che si allarga al mondo che ci circonda, un mondo dove “ti guardi dentro e capisci che qualcosa hai sbagliato“.

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Il Cile – “Siamo morti a vent’anni” – Artwork

Con “Tu che avrai di più” siamo nel campo di una serenata moderna ad una persona ormai lontana, che è già andata via. Con “La ragazza dell’inferno accanto” si cambia sia ritmo che stile: un pop rock abbastanza veloce che parla di una relazione difficile tra un ragazzo e una ragazza, la classica storia quando non si vuole essere solamente “amici”.

Tamigi“, con la sua chitarra elettrica e le sue tastiere, narra di una storia d’amore che forse sta per finire per colpa di un viaggio all’estero, con la speranza di salvare il salvabile e che il ricordo sia sempre indelebile, che non scompaia nelle acque del fiume. “Il nostro duello” forse è l’episodio peggiore del disco, un bel riff musicale non supportato da un testo questa volta del tutto all’altezza.

Il mio incantesimo” è la canzone scelta come singolo, un bellissimo giro di piano che incastona una poesia che parla di un mondo dove le paure sono a tempo determinato e dove si ipoteca anche la rabbia per un posto in prima fila. Con “Credere alle favole” un pianino elettronico ci introduce con un fraseggio psicotico verso un mondo dove non c’è più tempo e forza per credere alle favole, come l’amore. Il disco si conclude con “La Lametta“, canzone che all’inizio cita “Fatti mandare dalla mamma” di Gianni Morandi e che prende in giro il mondo della musica italiana, mondo in cui il Cile si augura di essere la lametta che apre in due questo, appunto, questo mondo.

Il disco, ultimo in ordine di tempo di una nuova scena cantautorale italiana che ha visto in Dente e ne Le Luci della Centrale Elettrica i suoi primi esponenti, non tradisce all’ascolto. Testi molto curati ma mai banali e sempre coordinati con la musica, anche quella tipica della nuova scena musicale italiana. Non stupisce come questo disco sia subito balzato in cima alle vendite: è un ottimo prodotto. E speriamo non sia l’unico.

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