Diraq: “Fake Machine”. La recensione

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Diraq - "Fake machine" - artwork

I Diraq, formazione italiana di stoner rock, hanno da poco dato alle stampe il suo primo disco, “Fake Machine“, per la dell’Urban recording Studio di Perugia. I quattro ragazzi (Matteo alla voce, Alessandro al basso, Edoardo alla chitarra e Federico alla batteria), grazie anche al lavoro al mixer di Lorenzo “Dek” De Canonico, hanno autoprodotto questo album di esordio dopo il primo EP del Gennaio 2010 e dopo la scelta del nome ottenuto dalla storpiatura del cognome del matematico Paul Dirac, quello che formalizzò il concetto di impulso. E la politica musicale dei Diraq si può dire che sia proprio questa: passare dal silenzio al massimo dell’intensità e poi di nuovo immediatamente al silenzio.

Fake Machine“, composto da 10 tracce per 40 minuti di musica i cui testi oscillano tra la denuncia sociale e la psicologia umana, parte con il rock deciso di “I’m a ghost” che ricorda da vicino i Faith no More per poi sterzare verso il rock manipolato e remixato di “B.L.O.O.D (Bad luck over odd duck)“, pezzo scelto come singolo molto sincopato e particolare, quasi devoluto nella sua struttura, a metà tra Primus e Muse, così come “4frank“.

Il brano “Sybyl“, identificato dalla band stessa come un “un embrione, un breve fragore squarcia il silenzio“, è un pezzo molto particolare, quasi un’incubatore di una dimensione musicale, vista la sua lunghezza e la sua varianza interna, sempre però legata da un filo musicale ben preciso.

Il pezzo successivo, “Vicolo squallore“, è l’unico con il titolo in italiano ma è anche un brano che denuncia il marcio, lo sporco e il negativo che si annida anche solo nei titoli dei telegiornali qui riportati che parlano di morti, di stragi e di cadaveri. A questo brano fa compagnia il brano finale “Mr Freight Train“, una sorta di ultima chiamata prima che parta il treno della disperazione… o della salvezza.

Diraq - "Fake machine" - artwork
Diraq – “Fake machine” – Artwork

See life through a kaleidoscope“, con il suo incedere ritmico ed ipnotico, potrebbe essere benissimo la colonna sonora di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, anche in virtù della sua chiusura così diversa dal resto del brano. Diversità che ritroviamo anche in “Leaves on canvas” ed in “My mentor in Purgatory“, brani d’atmosfera quasi post rock con tanto di voce narrante e che ricordano molto Nick Cave e le esperienze musicali dei Massimo Volume. Il disco è chiuso da “Exegi Monumental Aere Perennius?“, pezzo che nonostante il titolo latino è molto moderno, come dimostrano le chitarre, i tempi stoppati e la voce graffiante.

I Diraq dicono “this is the place and the time“: il luogo forse non so, ma sul tempo sono abbastanza concorde. Il disco di questi quattro ragazzi è un disco coraggioso, fuori dagli schemi e che ha dei suoi punti di forza (su tutti “Bad luck over odd duck”) ma secondo me il gruppo ha ancora strada da fare per migliorare alcuni passaggi musicali che potrebbero portare l’ascoltatore a non comprendere bene che prodotto si ha tra le mani. E dato che parliamo di un disco complesso, diverso e particolare, bisogna dare tempo al tempo ed aspettare il prossimo impulso che ci porterà chissà dove, forse proprio in quella Sibilla ormai cresciuta dalla sua fase embrionale e diventata una bellissima ragazza. Io me lo auguro.

 

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