Cominciamo dicendo subito la verità: Dave Grohl non è più il ghepardo di una volta. Si avvicina ai 50 e la voce non è più quella di prima, ma questo può essere visto anche come lato positivo.
Mi spiego meglio. Come i calciatori esperti che si riposano in campo e poi piazzano la giocata decisiva (sono iniziati i Mondiali, quindi passatemi la similitudine calcistica) Dave sembra aver imparato a dare spazio anche agli altri.
Questo per gli spettatori vuol dire code strumentali più lunghe per i pezzi, intermezzi comici in cui viene fuori tutto l’animale da palcoscenico, versioni più intime, quasi acustiche, degli inni da stadio che conosciamo, e un sacco di Taylor Hawkins in più. Non ci vedo lati negativi, onestamente.
Passiamo alla cronaca del concerto, diverso da quello di Bologna (ero presente anche lì) per tutti i motivi di cui sopra. E perché Grohl poteva usare tutte e due le gambe.
Apertura sparatissima con “Run”, “All my life”, “The pretender”, adrenalina già a duemila, 60.000 persone scatenate.
Rallentiamo un attimo con “Sky is a neighborhood” e poi inizia l’amarcord: sulle prime note di “Rope” i vecchi fan sono andati in delirio, i nuovi invece mi sono sembrati un po’ freddini, ma ci può stare.
La coda lunghissima di “Rope” diventa una specie di omaggio a Carlos Santana con un duetto chitarra-batteria dalle sfumature latineggianti, poi torniamo al disco nuovo con un pezzettino tranquillo come “Sunday Rain”, con annesse coriste e special guest Harper Grohl, la figlia di Dave.
Intermezzo comico: “alzi la mano chi non aveva mai visto i Foo Fighters prima. Un sacco di gente, cioè sono 30 anni che suono in Italia ed è la prima volta? Fate schifo!”
Allora facciamo un po’ di canzoni più vecchie così le imparate: “My hero” in versione quasi acustica, “These days” e “Walk”. A questo punto eravamo tutti con le lacrime agli occhi e le voci rotte dal pianto, ma si cantava a squarciagola lo stesso.
Sdrammatizziamo un attimo con un rutto fragoroso e poi ultima parte. Presentazione della band, questa è diventata col tempo la parte più divertente perché scherzano e soprattutto fanno diverse cover.
Shiflett, ce lo fai un assolo di chitarra o meglio due? Subito!
Rami Jaffee alle tastiere: inizia a suonare la base “Imagine”, poi Grohl ci canta sopra “Jump”, e quando tocca a Pat Smear arriviamo a “Blitzkrieg Pop”. È punk nell’anima quell’uomo!
Qui inizia il delirio perché ci sono stati due momenti epici in pochi minuti: Taylor Hawkins si alza per omaggiare Freddie Mercury, Grohl si siede alla batteria e ci lanciamo tutti e 60.000 in una cover di “Under Pressure”.
A questo punto manca solo l’assolo di Nate, ma “a Nate non piace fare gli assoli, abbiamo un altro bassista in sala?”
Certo che ce l’abbiamo! Duff McKagan inizia a suonare un giro familiare, seguito subito dai suoi colleghi Axl e Slash che si materializzano sul palco per suonare “It’s so easy”: delirio assoluto.
Ci avviciniamo alla fine, “Monkey Wrench” ci mantiene arzilli, poi si torna all’introspezione con “Wheels” e annessa fisarmonica. Dave chiede aiuto al pubblico (che non glielo nega di certo) per “Breakout”. Su “Best of You” sembrerebbe finita, siamo tutti ancora più in lacrime.
Invece no, siparietto dietro le quinte: se fate abbastanza casino facciamo un’altra canzone, anzi due, anzi tre. Chiusura perfetta con “Everlong”, tutti contenti.
Parte organizzativa: file molto veloci all’ingresso, solito delirio per la questione token, ma almeno non è finita l’acqua dopo mezz’ora come a qualche altro festival. La cittadella coi giochi e i passatempi mi è sembrata un’ottima trovata.
Acustica molto buona: si sentiva bene anche nel parcheggio!
Permettetemi di chiosare con un invito ad apprezzare di più i gruppi che vengono prima del main event. Meritano più calore, più affetto!