Gorillaz: “Humanz”. La recensione

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Esistono poche band al mondo (se non nessuna) come i Gorillaz, gruppo musicale britannico fondato nel 1998 dalla mente del frontman dei Blur, Damon Albarn, e dalle mani del fumettista Jamie Hewlett, co-creatore del comic book Tank Girl. Nel corso di questi venti anni i due hanno fatto conoscere al mondo questa band virtuale composta da 2D (cantante e tastierista), Murdoc Nicalls (bassista e fondatore del gruppo), Noodle (chitarrista) e Russel Hobbs (batterista) che ha spopolato nelle classifiche grazie a brani come “Clint Eastwood” e “Feel Good Inc”. Pensate che nel 2001 il gruppo fu anche nominato per il Premio Mercury, ma la candidatura venne in seguito ritirata su richiesta del gruppo. Questo per farvi capire i personaggi.

Non stupisce quindi che la notizia di un loro nuovo disco, a distanza di ben sei anni dal precedente “The Singles Collection 2001-2011“, abbia elettrizzato una buona parte di pubblico, anche grazie ai singoli diffusi in quest’anno tra cui “Hallelujah Money“, canzone cantata da Benjamin Clementine e dichiaratamente contro il nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump (in fase di registrazione Albarn ha poi eliminato ogni riferimento a Trump nel disco). Con queste premesse è poi uscito “Humanz“, disco prodotto dalla Parlophone e che vede al suo interno una pletora di collaborazioni sia come turnisti (Mike Smith alle tastiere, Cass Browne alla batteria, Simon Tong alla chitarra ritmica e solista, Jeff Wootton alla chitarra solista, Mick Jones alla chitarra ritmica, Paul Simonon al basso, Jesse Hackett alla tastiera e Gabriel Wallace alla batteria) che come cantanti nel disco insieme ad Albarn tra cui Vince Staples, Popcaan, D.R.A.M., Grace Jones, Anthony Hamilton, De La Soul, Danny Brown, Kelela, Mavis Staples, Pusha T e Benjamin Clementine.

Humanz” è composto da venti tracce anche se, al netto dei piccoli preludi e dei pezzi strumentali, sono quattordici: il disco parte con la sequenza di lancio dello Shuttle Discovery e ci immerge subito in questo universo distopico con la voce di Vince Staples per “Ascension“, brano che mostra come il fatto di lavorare con così tanti artisti diversi crei un disco che ha tantissime sfaccettature e tanti brani diversi che a volte variano anche all’interno della stessa canzone: ne è una prova “Strobelite” che vede Peven Everett cantare in un pezzo quasi funky e subito dopo venire catapultati nell’universo oscuro e dark hip-hop di Popcaan per “Saturnz Barz“, uno dei singoli di lancio del disco.

I De La Soul dipingono le prime parole di “Momentz“, brano dal drumming serratissimo e cattivo che mostra un’altra faccia di questo disco, quella della “dark fantasy” che ha chiesto Albarn di immaginare a tutti coloro che hanno collaborato col disco, ovvero un mondo nel futuro in cui la politica avrebbe avuto preso spunto direttamente dalle emozioni (tutti i riferimenti a Trump sono stati levati ma restano le sensazioni che danno le canzoni). La prima voce femminile si trova nella bellissima “Submission” impreziosita da Danny Brown e da Kelela mentre per la seconda troviamo un’ospite d’eccezione, la modella e cantante androgina Grace Jones che per la sua “Charger” ha dovuto cantare sulla base strumentale per ben quattro ore prima che Albarn remixasse il tutto in una forma apprezzabile, cosa che lo ha fatto quasi impazzire.

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Gorillaz – “Humanz” – Cover

Andromeda” è il quarto singolo del disco, vede la partecipazione di D.R.A.M. ed è forse la canzone più “normale” di tutto il disco, molto chill out e davvero piacevole da ballare e cantare: subito dopo troviamo l’unica canzone del disco che vede solo i Gorillaz senza nessun featuring, ovvero “Busted and Blue“, un pezzo molto intenso che parla d’amore e di come ci si possa sentire come satelliti in questo mondo senza nessuno affianco. Con “Carnival” (che vede la collaborazione con Anthony Hamilton) inauguriamo la parte più cupa del disco che vede una ideale trilogia con “Let Me Out” (featuring Mavis Staples & Pusha T) e “Sex Murder Party” (featuring Jamie Principle & Zebra Katz).

Il disco si avvia alla fine con tre brani di notevole fattura: la prima canzone, “She’s My Collar“, vede la partecipazione di Kali Uchis per un pezzo dal drumming serrato e che non lascia scampo. Il secondo brano, “Hallelujah Money” cantata da Benjamin Clementine, come abbiamo detto prima, è un attacco al potere costituito e alle conseguenze di un inaspettato evento di portata mondiale, mentre il disco si chiude con la voce squillante di Jehnny Beth che canta “We Got the Power“, una canzone che ci invita a riprenderci il nostro potere come popolo.

Quando ha parlato di questo disco, Albarn ha detto che con “Humanz” voleva creare un disco in cui parlare della risposta mondiale ad un cambio mondiale politico. Sono stati levati tutti i riferimenti a Trump (“Non voglio dargli altra fama, ne ha già abbastanza!”) ma lo scenario su cui si muove questo disco è abbastanza chiaro. I temi del disco sono ampiamente politici ma sono tutti giocati e descritti con un tono giocoso e così vivido che questo futuro fittizio sembra incredibilmente reale. Il disco manca di canzoni di primo impatto che possano sfondare per radio ma ha un suo corpo molto compatto che si lascia ascoltare per intero senza essere colpiti dalla tentazione di andare avanti nelle tracce e il suo vagare tra i generi (R&B, hip hop, trance, dance) mostra come ogni artista coinvolto in questo progetto si sia sentito libero di creare a suo piacimento senza vincoli di sorta. Molti possono vedere questo come una sorta di collezione di tracce piuttosto che un nuovo disco ma il risultato alla fine a mio avviso è coerente e risalta su tanti dischi attuali. Quindi bentornati, Gorillaz.

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