Paolo Benvegnù: “H3+”. La recensione

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“H3+ è dedicato alla perdita, all’abbandono e alla rinascita, un’antologia di visioni, dove la grazia, la molecola alla base della vita, riempie gli spazi tra le emozioni, conservando la memoria di quello che siamo stati e quello che saremo.” Con queste parole Paolo Benvegnù, ex membro degli indimenticati Scisma e promotore della corrente artistica dell’Ipersensibilismo, spiega il suo nuovo disco, “H3+“, prodotto dalla Woodworm sotto le amorevoli cure di Michele Pazzaglia.

Accompagnato dalla sua band composta da Luca Baldini al basso, Ciro Fiorucci alla batteria, Andrea Franchi alle chitarre e synth e Marco Lazzeri al synth e pianoforte, la voce e la chitarra di Paolo Benvegnù, come hanno già fatto nei precedenti dischi “Hermann” e “Earth Hotel“, si imbarcano in un nuovo viaggio sulla natura dell’uomo già dal titolo: lo ione triatomico di idrogeno, in sigla H3+, è infatti l’elemento più diffuso nell’universo, uno dei componenti fondamentali dello spazio interstellare che riempie il cosmo e di cui ancora non sappiamo molto. Partendo da questo punto e dal kanji giapponese che raffigura l’uomo riprodotto in copertina questo disco chiude l’ipotetica “Trilogia H” cominciata sei anni fa con “Hermann” e proseguita con “Earth Hotel”, un viaggio dedicato all’esplorazione dell’anima dove “le navi senza vento nell’oceano senza fine” di “Avanzate, ascoltate” hanno finalmente trovato una posizione grazie alle stelle.

Partendo da tutte queste basi si può tranquillamente affermare come il Benvegnù solista sia uno dei migliori cantautori che abbiamo in Italia e di come il suo viaggio in questi anni, cominciato molto tempo fa con “Piccoli fragilissimi film“, sia forse giunto ad un approdo momentaneo, una destinazione segnata sulle mappe di navigazione musicale di cui fare tesoro da cui poi in un futuro prossimo ripartire per altri pianeti sonori, altri universi umani capaci di comprendere come il motore delle emozioni umane sia sempre la cosa più elementare, quei mattoni dei sentimenti di cui siamo fatti e che ci spingono nei nostri giorni mentre vaghiamo in questo cosmo senza meta. E la scrittura di Benvengù è precisa, fredda, tagliente come un bisturi e asettica come la disciplina che insegnano le popolazioni orientali e che forse non a caso è riprodotta nella copertina del disco in una sorta di tributo all’uomo e al suo valore, alla sua essenza e alla sua natura, se è vero che secondo alcuni il kanji di “umanità” raffigura un uomo che sorregge un altro uomo.

E il disco parla da subito di uomini e di esplorazione con “Victor Neuer“, brano disegnato da un fantastico arpeggio di chitarra in cui un esploratore che si chiede cosa ci sia nel suono, quale sia la sua parte in tutto questo, cosa sia lui o cosa saremmo tutti. Il disco ci catapulta direttamente nel cosmo con “Macchine“, un synth pop ritmato e piacevole che si rifà molto a certi brani degli anni Settanta di David Bowie e ad un certo filone musicale con suoni quasi “alieni” con una coda musicale finale eterea. La citazione su Bowie la troviamo anche nel pezzo successivo, “Goodbye planet Earth” che omaggia “Ashes to ashes” con il suo pop ritmato e accattivante che rimane in testa e non va via, come tante delle canzoni scritte da Benvegnù quando era con gli Scisma.

cover
Paolo Benvegnù – “H3+” – Cover

Olovisione In parte terza” è una raffinata ballata d’amore, uno dei pezzi migliori del disco che mescola sapientemente poesia e delicatezza musicale (“Ma quando riusciremo a toccarci/Saranno i demoni dell’amore a ritrovarci/Quando riusciremo a sfiorarci/Sarà l’incanto dell’amore a liberarci“), la stessa delicatezza che ritroviamo anche nella seconda ballata, “Se questo sono io“, dal testo davvero perfetto (“Cercami tra le tue dita/E osserva ogni cielo cambiare/E se vorrai immaginare/Non potrai mai perderti/Perché sarò con te/Ad accoglierti“). Questo a mio avviso è l’apice massimo del disco, quando la musica fa da accompagnamento alle poesie di Benvegnù, quando il testo si erge e dà un senso non solo alla canzone ma a tutto il disco.

Con “Quattrocentoquattromila” continua il vaggio nel cosmo ma verso i due terzi della canzone qualcosa cambia e al pop rock iniziale subentra una musica più eterea e più spaziosa dove troviamo echi di “Svecchiamento” degli Scisma (“Lost in the space/Mayday mayday/I’m lost in the space“) ma subito dopo troviamo il contraltare di “Boxes“, il brano più cupo del disco, dove un’entità eterna come il cosmo parla all’uomo e gli spiega che “Il futuro che non riesci a immaginare / È solo presente in divenire“. Anche la musica si adegua al testo e diventa ossessiva, cruda, minimalista, come se anche essa fosse una condanna.

Il viaggio sta giungendo alla fine e si comincia a vedere la luce con le note rarefatte di “Slow Parsec Slow” e con le sue contaminazioni free jazz (grazie al sassofono di Steven Brown) e arriviamo vicino al Sole, con la sua forza capace di illuminare e donare vita ma anche di accecare e distruggere, come dimostra “Astrobar Sinatra“.  Il finale è un potente ritorno a Terra dove ci sta aspettando tutto il bello che noi non siamo più capaci di vedere ma che riscopriamo in “No drink no food“: “Sono sicuro ogni cosa ha il suo respiro e ci respira accanto/Le cattedrali, l’alfabeto, i gigli che si ammantano di bianco/E le montagne immacolate, il vento, il rumore delle onde/Ci stan parlando, stanno ascoltando.”

Quella di Paolo Benvegnù e di questo “H3+” è un universo proprio ma in cui tutti si possono ritrovare. La voglia dell’uomo di volare alto, si trascendere dal corpo ed esplorare lo spazio di cui non sappiamo nulla, di cui abbiamo paura ma che così tanto ci affascina, tutta questa pulsione è racchiusa in questo disco e dal macrocosmo siderale si arriva fino al microcosmo esistenziale, allo spazio vuoto che c’è dentro di noi, tra le pieghe della nostra anima. Siamo terreni, siamo fatti di dolori, dubbi, ansie e desideri ma dentro di noi alberga una scintilla di creazione, le molecole che vengono create ogni giorno nel nostro corpo sono fatte degli atomi che sono nati dal Big Bang eppure ce ne dimentichiamo. Questo è un disco che ce lo ricorda, che ci dice che è il caso di puntare verso l’infinito che già alberga in noi per trovare quella risposta che cerchiamo da sempre. Le vere protagoniste di questo disco non sono le musiche ma le parole che trasformano le canzoni e le piegano al proprio volere, diventando vero mezzo espressivo e portandosi dietro un peso non indifferente. Ma, si sa, questo è il destino dei poeti.

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