Roger Waters: “Is This the Life We Really Want?”. La recensione

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“Is This the Life We Really Want?”, il primo disco in studio dopo circa 25 anni dal precedente “Amused to Death” di Roger Waters, annunciato in aprile dal singolo di lancio “Smell the Roses”, non è stato accolto nel migliore dei modi in Italia, dove ne è stata vietata dal giudice civile di Milano la vendita fisica per un’ipotesi di plagio delle celebri “Cancellature” dell’artista Emilio Isgrò riprodotte sulla copertina. La Sony Italia ha accettato la notizia ma ha presentato reclamo e ha perso, quindi da noi lo si potrà avere solo acquistandolo online.

Superato questo, parliamo di questo album che ci mostra un Roger Waters molto diverso da come lo abbiamo lasciato un quarto di secolo fa: eliminate le angosce e la morte di “The final cut“, le cupe pulsioni sessuali di “The pros and cons of hitch hiking” e la lucida e scarna cronaca del quotidiano televisivo di “Amused to death“, ci troviamo ora per le mani un disco in cui Waters racconta sempre la realtà dividendola per fazioni (da una parte la povera gente e dall’altra la classe politica) ma questa volta è meno crudo del solito e mostra anche sentimenti più umani nei confronti dell’ascoltatore come la compassione e la comprensione.

Certo, lo stile è sempre lo stesso, quel misto tra canto e narrazione che ha reso famosi i Pink Floyd con canzoni come “Wish you were here”, “Animals” e “The wall”, come dimostra l’introduttiva “When We Were Young“, che sfuma dolcemente (nonostante il ticchettio incessante dell’orologio in sottofondo) in “Déjà Vu“, la prima canzone del disco che si eleva maestosa con la sua chitarra e con le sue orchestrazioni grazie anche al genio di Nigel Godrich, produttore di lungo corso dei Radiohead che ha trasformato il suono di Waters insieme alla band composta per l’occasione da Gus Seyffert (basso, chitarra, tastiere), Jonathan Wilson (chitarra, tastiere), Joey Waronker (batteria), Roger Manning (tastiere), Lee Pardini (tastiere) e le Lucius, ovvero Holly Proctor e Jess Wolfe ai cori. Quindi non più lunghi e chilometrici assoli di chitarra ma tante note, tanti cambi di ritmo e di melodia, come in una crasi tra le varie anime del cantautore.

Questo però non deve far dimenticare lo stile classico di Roger Waters che non abbandona questa sua narrazione musicale del moderno e dei suoni che circondano la nostra esistenza, come nel brano “The Last Refugee” che ci porta con i suoi gabbiani nella successiva “Picture That“, brano cupo e martellante che ci mostra invece il lato inquieto di Waters, quello che ha diviso nel corso degli anni con Gilmour e soci quando dipingeva scenari apocalittici. Questo disco è un flusso di coscienza continuo, un “Ulysses” di Joyce trasportato e tradotto in musica,  come dimostra “Broken Bones“, una delle canzoni più riflessive e schierate del disco contro le bugie dette dalla politica e dalla religione dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La title-track “Is This The Life We Really Want?” invece si focalizza sulle persone e su come sono state anestetizzate al dolore e alla violenza dai mass media e dalla paura (“So, every time the curtain falls/Every time the curtain falls on some forgotten life/It is because we all stood by, silent and indifferent/It’s normal”) mentre il ponte di “Bird In A Gale” ci conduce direttamente a “The Most Beautiful Girl“, una delicatissima ballata dedicata ad una storia d’amore tra un’uomo e una donna che è morta per l’esplosione di una bomba in un attentato.

Smell The Roses“, il singolo scelto per promuovere il disco, torna alle care vecchie atmosfere rock dei Pink Floyd per parlare di guerra e di come l’umanità distrugga la bellezza per denaro mentre “Wait For Her” è l’unica canzone non originale del disco, dato che è la trasposizione musicale di un famoso poema del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish che è considerata una delle poesie più influenti in lingua araba (e che è anche una delle canzoni più belle del disco, aggiungo io). Dopo il ponte musicale di “Oceans Apart” il disco si chiude con “Part of Me Died“, una sorta di seduta dallo psichiatra dove Waters elenca i motivi per cui qualcuno può cadere in depressione e come solo l’amore possa salvare le persone in un finale elegiaco e maestrale.

enciclopedica dei Pink Floyd, ha trasportato il mondo di Waters in un dimensione sonora più attuale, si è fatto carico degli arrangiamenti basati sugli strumenti a tastiera, ha architettato gli effetti sonori che da sempre accompagnano i concept del musicista inglese. Ha suonato tastiere e chitarra e con Waters ha assemblato una band che comprende

Rispetto ai suoi precedenti album, questo “Is this the life we really want?” di Roger Waters è stranamente rassicurante e mostra uno spiraglio di luce alla fine del tunnel: nato dall’omonimo radiodramma, questo disco mostra le tematiche ricorrenti della lirica di Waters (politica ingorda, militari asserviti al potere e sordi al dolore e alle lacrime, la finanza che brucia tutto sull’altare del guadagno senza scrupoli) ma mostra, a differenza degli album precedenti, anche una tenera speranza, un modo per scappare da tutto questo senza farsi inghiottire da questo gioco al massacro. Questo disco è pieno di momenti fantastici ma ho apprezzato tantissimo le ballate per chitarra acustica, pianoforte e archi, soprattutto la canzone finale, il momento della catarsi, la salvezza dall’orrore grazie all’amore di una donna. Non si era mai sentito prima un Roger Waters cantare d’amore in maniera così delicata e sensibile, portando quasi alle lacrime l’ascoltatore. Ci rimane, di questo grandissimo disco, il messaggio finale: l’amore redime e rende migliori.

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