Baustelle: “L’amore e la violenza”. La recensione

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Non c’è molto amore in giro per Francesco Bianconi, frontman dei Baustelle e compositore moderno e raffinato (basti elencare le collaborazioni con Syria, Irene Grandi, Paola Turci, Noemi, Chiara, Anna Oxa e Musica Nuda): lo dimostrano le ondate di livore che si riversano sui social ad ogni sua uscita musicale o del suo gruppo. Questo può essere parzialmente compreso se consideriamo il suo atteggiamento sia nelle interviste (“la civiltà occidentale moderna ai miei occhi fa schifo“) che nei testi dei dischi (basti pensare allo scandalo che causò una canzone come “Charlie fa surf“, in risposta all’opera “Charlie don’t surf” di Cattelan). Eppure, se questo giudizio può essere compreso, non può essere giustificato in nessun modo, soprattutto quando la reazione tende a screditare il disco senza avere al suo interno contenuti oggettivi e facendo perno solo sul linguaggio violento e colorito (discorso perdente in partenza, a mio avviso). O si hanno argomentazioni per dire che un disco non piace o è meglio fare semplicemente scena muta.

Per fortuna i Baustelle da sedici anni a questa parte hanno avuto il tempo e la forza di costruirsi uno zoccolo duro di fans che li segue qualunque cosa facciano e che ama il modo con cui il gruppo si “sporca le mani” con il pop più moderno per parlare del disagio della società attuale con testi al veleno mascherati da melodie assolutamente catchy e d’impatto: l’approccio di Bianconi alla scrittura è sempre stato molto d’autore, molto complesso e citazionista, in alcuni casi quasi freddo e da esteta moderno. Di contraltare alla freddezza di Bianconi c’è la bellezza (vocale e non) di Rachele Bastreghi, ottima comprimaria, e il tutto viene impreziosito dalla chitarra di Claudio Brasini. Ne viene fuori alla fine un trio che ha trovato ormai il suo equilibrio e che non ha bisogno dell’amore del circuito mainstream ma che pensa solo a fare quello che vuole fare, ovvero musica pop di grande livello sulla falsariga degli chansonnier francesi e di De Andrè. E su questo è quasi imbattibile in Italia.

Dopo questa premessa, cominciamo a parlare del disco: “L’amore e la violenza“, la cui copertina è stata realizzata da Gianluca Moro ed è ispirata al film del 1968 “Se…” interpretato da Malcolm McDowell, era stato annunciato nell’ottobre del 2016 dalla canzone inedita “Lili Marleen” diffusa in download gratuito ma che non fa parte della lista di tracce del nuovo disco. L’album è stato pubblicato il 13 gennaio e comprende 12 canzoni prodotte da Francesco Bianconi e mixate da Pino “Pinaxa” Pischetola, stesso collaboratore di Franco Battiato. Il singolo di lancio del disco è stato “Amanda Lear” e subito ha mostrato cosa ci sarebbe stato da aspettarsi da questo nuovo lavoro dei Baustelle, il loro settimo in studio: melodice elettroniche, testi caustici, ritornelli che rimangono invariamente attaccati al cervello e assenza di batteria, sostituita da campionamenti di tamburi suonati da Sebastiano De Gennaro e microsamples tratti da vinili pubblicati tra il 1975 ed il 1982.

L’album è introdotto dall’esplosione musicale di “Love” e col brano successivo “Il vangelo di Giovanni” viene fuori la natura del disco, un pop raffinato giocato in chiave completamente analogica e con l’ausilio di strumenti elettronici come sintetizzatori, minimoog, mellotron e un organo Vox Continental, senza dimenticare strumenti più tradizionali come il pianoforte, le chitarre elettriche e la marimba, e la citazione “io non voglio più ascoltare questa musica leggera” rimanda “e sommersi soprattutto da immondizie musicali” di battatiana memoria. Dopo “Amanda Lear” troviamo “Betty“, canzone il cui testo dà il titolo al disco e che viene introdotta dall’organo per poi diventare un brano squisitamente pop, quasi elegiaco nella sua profana sacralità.

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Baustelle – “L’amore e la violenza” – Cover

Eurofestival” lancia in primo piano la voce di Rachele per un brano ritmato che spara a zero sulle paranoie dell’Europa attuale mentre “Basso e batteria” si sbugiarda dall’inizio con il suo incedere così elettronico ed una chiosa finale volutamente musicale senza parlato: anche senza l’orchestra “La musica sinfonica” parte forte coi violini elettronici e richiama alcune colonne sonore di videogiochi anni Novanta (Castlevania su tutte) e una certa atmosfera giapponese che aleggia su tutto il brano.

L’ingresso synth-pop lo troviamo anche in “Lepidoptera“, brano dalle atmosfere kubrickiane e molto evocative, quasi acide, con un notevole cambio di passo interno verso l’elegia e la sublimazione musicale: poco dopo “La vita” ci riporta con i piedi per terra con la sua narrazione del quotidiano grazie ad un impianto sonoro accattivante e un testo crudo e realista. Dopo la musicalità sbilenca di “Continental stomp” ci avviamo verso la fine del disco con “L’era dell’acquario” che indaga le inquietudini moderne sul terrorismo e sul terrore con una musicalità da lento anni Sessanta (viene in mente “Quando partivano i lenti” de Il Bagatto) e “Ragazzina“, canzone che sembra catapultata dagli anni Sessanta e che mostra la vera e potente cifra stilistica dei Baustelle, sia per la musica che per il testo poetico ma realista, per quella che a mio parere è la migliore canzone di tutto il disco.

L’amore e la violenza” è stato definito da Francesco Bianconi “un disco oscenamente pop e colorato, nato con l’intento di mettere in collisione materiali e ispirazioni musicali di matrice diversa con canzoni pop che per una volta non temono di rivelare una propria eccitante complessità.” Come definizione direi che calza a pieno: tra i richiami agli anni Ottanta, al primo Battiato e alla vaporwave grazie anche al timbro analogico (e all’assenza totale dell’orchestra, invece utilizzata tantissimo in altri disci come “Fantasma”) e le continue invasioni nei generi musicali degli anni Sessanta e Settanta questo disco mostra una capacità camaleontica invidiabile, un susseguirsi di generi e canzoni che ammantano con la loro magia i testi di Bianconi, piccoli ritratti di realtà sanguinanti di inchiostro e di vita. Potrà non piacere, come detto all’inizio, ma bisogna argomentare, non sparare così alla cieca: per quanto siano soggetti al lavoro incessante degli “haters da tastiera” i Baustelle dimostrano con i fatti e le canzoni che al momento, in Italia, gente che scrive musica come loro ce n’è davvero poca. Chapeau.

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