Mannarino: “Apriti cielo”. La recensione

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Apriti Cielo” è il titolo del quarto album del cantautore Alessandro Mannarino, romano d’adozione ma calabrese d’origine, a tre anni di distanza dal precedente “Al monte“.

Il nuovo progetto musicale di questo artista classe 1979 comprende nove canzoni, tutte scritte e musicate dall’interprete e nate dalle esperienze in giro per il mondo e da una ricerca stilistica molto accurata, arrangiate da Tony Canto e dallo stesso Mannarino, prodotto dalla Taiga Srl, registrato da Vincenzo Cavalli al Sonora Studio Rec di Scordia (CT) e mixato da Michael H. Brauer all’Electric Lady Studio di New York. Quindi arie internazionali per il nuovo disco del cantautore italiano che può contare ormai su uno zoccolo duro di fans dal suo esordio con “Il bar della rabbia”.

Il disco si apre con “Roma“, un brano disincantato che parla della città che lo ospita da anni e che nei suoi versi centrali in romanesco ricorda Fellini con il suo film “Roma”: “Ma come sei finita, amore all’incontrario? È così che tu te chiami per davvero: eri giovane e ridevi della vita, poi hai creduto alla bucia de un mercante forestiero e der magnaccia de la compagnia”. La seconda canzone, scelta anche come primo singolo, è la title-track, una preghiera laica, una sorta di grido di dolore e di speranza per l’umanità, “per chi non ha bandiera, per chi non ha preghiera, per chi cammina dondolando nella sera”. Anche il terzo brano. “Arca di Noè“, parla di umanità, ma questa volta parla di umanità in viaggio verso destinazioni ignote ma trascinati da ritmiche latine che ci portano in Brasile: “Questa mia vita è tutto quel che ho, più breve lei sarà più forte io canterò”.

L’amore per la musica sudamericana continua con “Vivo“, pezzo registrato tra Italia, New York e Rio de Janeiro che parla di migrazione e di integrazione e del non capire quale sia il nostro scopo su questa terra (“porto scavata sulla fronte una poesia bellissima, riga su riga l’ho scritta me ne andrò senza averla capita“) e poco dopo troviamo “Babalù“, canzone alla Mannarino ma pienamente sudamericana, con percussioni tribali e ritmi samba, trombe e coro e che sembra nascere da qualche locale cubano o da qualche strada brasiliana. In mezzo a queste due canzoni si trova “Gandhi“, brano lungo e complesso (ben 7 minuti) dalla classica andatura blues che mette alla berlina la società moderna e le sue contraddizioni (“Guardi che, al mondo, c’è chi fa lo sciopero della fame e chi sciopera perché ha fame/Ma alla fine arriva sempre la polizia, che non ha mai letto nessuno dei libri/Di Gandhi, Gandhi, Gandhi, Gandhi.”)

copertina album apriti cielo mannarino
Mannarino – “Apriti cielo” – Cover

Le rane” vede con la collaborazione con Ylenia Sciacca ed è una ballad marinara che parla di un amore finito male (“Le rane stanno sul comò/Mi bevo quello che non ho/Da quando sei andato via/Ho allagato casa mia/E a Natale dove andrò/Non trovo una fotografia/Magari mi ricorderò”) mentre il country western di “La frontiera” di morriconiana memoria è una allegoria della società italiana moderna, di una storia disperata che sembra somigliarci moltissimo (“Una voce più forte dell’altra parlò dal balcone/Una folla più grossa dell’altra decise il da fare/E venne il tempo che questo paese fu di un solo colore/Una riga più dritta dell’altra chiuse il confine”) con un bellissimo finale dove la voce di una bambina sembra dare un’altra dimensione al tutto. Il disco si conclude con “Un’estate“, un pezzo ipotetico su di un futuro e su di una vita fatta di sudore, grano, mostri terreni e pomeriggi passati in un albergo a ore senza neanche dirsi che era amore.

Mannarino era stato molto chiaro su quale strada avrebbe scelto per il nuovo disco: “Una delle tendenze principali delle canzoni e dei cantanti di oggi è quella di scimmiottare i cantanti americani. Si sono dimenticati delle loro radici, del popolare, del folkloristico, per scimmiottare gli americani”. Questa frase dà tutto il senso di “Apriti cielo“, un disco che guarda alle radici ma non solo quelle di Roma, ma del sud del mondo, che siano le borgate capitoline, le favelas brasiliane o i locali cubani. E questa cosa delle radici è insieme il pregio e il tallone d’Achille di Mannarino: in questi ultimi due dischi ha cercato di operare una rottura musicale necessaria con il suo passato ma è sempre rimasto fedele alle sue radici e al suo stile. Paradossalmente il suo pregio più grande, quello di portabandiera della romanità come Gabriella Ferri o Franco Califano sono stati prima di lui, lo porta anche a non allontanarsi mai troppo dal seminato, anche se si sente che una parte di lui vorrebbe mollare gli ormeggi ed andarsene. Forse è per questo motivo che non ha tutto il successo che merita, probabilmente l’essersi incasellato in questa nicchia musicale lo sta limitando. Ed è un peccato, perché Mannarino non lo dovremmo scoprire solo al Concertone del Primo Maggio, ma sempre.

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