Tutti contro “Occidentali’s Karma” di Gabbani… perchè?

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Sono appena trascorse poco più di 24 ore dalla finale della 67esima edizione del Fesival di Sanremo che ha visto il brano di Francesco Gabbani “Occidentali’s Karma” vincere la kermesse davanti a “Che sia benedetta” di Fiorella Mannoia e “Vietato morire” di Ermal Meta e sui social networks c’è un’ondata di odio (o, come direbbero i gggiovani, “shitstorm“) che si sta riversando sull’ex leader dei Trikobalto. Come mai? C’è per caso in atto un reato di vilipendio di lesa maestà contro la Mannoia? A qualcuno non va giù che per la seconda volta Gabbani finisca davanti ad Ermal Meta (successe anche l’anno scorso a Sanremo Giovani)? E soprattutto, quali sono le motivazioni con cui viene portato avanti questo odio? Per le prime due domande possiamo solo azzardare ipotesi, ma per la terza domanda possiamo provare a rispondervi studiando il testo e la canzone “Occidentali’s Karma”.

Partiamo dalla musica: abbiamo di fronte un pop molto moderno, elettronico ed accattivante (“catchy“, sempre come direbbero i ggiovani), che pesca a piene mani dalla musica anni Duemila e che sembra più vicino a “Fancy” di Iggy Azalea che a “Run to me” di Tracy Spencer (verso cui qualcuno nelle ultime ore ha addirittura azzardato si potesse parlare di plagio dimostrando di non avere ben chiaro cos’è il plagio musicale). È lo stesso pop che per anni abbiamo ascoltato da Franco Battiato ma in versione riveduta, corretta e aggiornata. E non mi pare che ai tempi l’artista siciliano sia stato trattato così male, se è vero che un disco come “Patriots” è considerato uno dei capisaldi della cultura musicale pop italiana.

Affrontata la questione musicale, parliamo del testo della canzone, scritto a sei mani da Francesco Gabbani, Luca Chiaravalli e Fabio Ilacqua. Se dovessi esprimere un giudizio complessivo sul brano parlerei di “arte allusiva“, ovvero parlare di qualcosa disseminando il percorso narrativo di allusioni, riferimenti e citazioni più o meno riconoscibili. E se la prima citazione è assolutamente riconoscibile (“Essere o non essere“, il dubbio amletico di Shakespeare) alcune lo sono molto meno, come quella su cui si impernia la canzone, “la scimmia nuda” tratta dall’omonimo libro del 1967 di Desmond Morris in cui si analizzano i comportamenti dei primati e quelli dell’uomo e si arriva alla conclusione che l’uomo altro non è che una scimmia sprovvista di peli. Un libro rivelatore sul comportamento umano e sulla storia del suo adattamento all’ambiente circostante. Da qui, quindi, anche l’idea di farsi accompagnare sul palco dal ballerino Filippi Ranaldi in tenuta da scimmione, un’idea che è stata vincente e che ha creato curiosità intorno a lui (e che siamo convinti spopolerà in estate nei villaggi vacanze).

Nel testo di Gabbani troviamo anche riferimenti alla condizione di massificazione e sovrappopolazione in cui siamo costretti a vivere giornalmente (“nella tua gabbia 2×3 mettiti comodo“) ma soprattutto c’è un attacco diretto e senza mezzi termini verso la generazione odierna, gli “intellettuali nei caffè, internettologi, soci onorari del gruppo dei selfisti anonimi” che cercano sempre “risposte facili” (magari cercandole su Google con il loro smartphone, visto che siamo “tutti tuttologi col web” e che ormai Internet è “coca dei popoli, oppio dei poveri“) visto che ormai “l’intelligenza è démodé” e siamo circondati di “dilemmi inutili“. In tutto questo però cerchiamo “storie dal gran finale” e lasciamo che “comunque vada panta rei“, che tutto scorra come è solito fare arrendendoci alla logica di Eraclito e cantandoci sopra, “and singing in the rain“. C’è tutta la società moderna occidentale in questo brano, divisa tra la ricerca di una spiritualità orientale che sentiamo non appartenerci più e le gabbie dell’apparenza delle nostre città, dove “piovono gocce di Chanel su corpi asettici” perché ci è insopportabile l’odore dei nostri simili, quando invece è lo strumento che gli animali utilizzano di più per riconoscere il branco, la propria famiglia, il gruppo di appartenenza. Questa dicotomia è rappresentata alla perfezione nella copertina del singolo che ritrae lo stesso Gabbani con un abito a due facce, da un lato tunica buddista e dall’altro lato completo classico, mentre si sta scattando un selfie (la stessa dicotomia di “Namastè, alè“): oggi prendiamo “lezioni di Nirvana” ma guai se non abbiamo il giusto outfit e ognuno di noi, se diventa “folla” e “grida un mantra“, può avere la sua “ora d’aria, di gloria” (come diceva Andy Warhol ma lui parlava di quindici minuti). E in tutto questo cosa può fare “la scimmia nuda” che è dentro di noi (la nostra parte animale e istintiva che cerchiamo di anestetizzare a tutti i costi) “quando la vita si distrae” e “cadono gli uomini“? Semplice, “la scimmia si rialza” e “balla“, alla faccia (e per buona pace) di chi vorrebbe che lei si arrendesse.

Per concludere, la canzone (ma soprattutto il testo) di “Occidentali’s Karma” non vincerà sicuramente un Nobel ma si inserisce a pieno nel solco tracciato anni fa da Battiato che ha fatto scuola con questo genere di liriche: non siamo di fronte a parole sparate a caso, non è un frullato di concetti, c’è un’idea di base e un filo rosso ben preciso che tiene unito tutto il pezzo. Il fatto che poi contro questa canzone si scaglino proprio le persone di cui si prende gioco Gabbani con il suo testo non fa altro che aumentarne il valore. E quindi rigodiamocelo.

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